A Ivan.
“Continuiamo
dopo, mi interessa”.
A
volte è davvero complesso provare a spiegare ciò che si pensa e in effetti non
ho l’ardire di tentarci.
Mi
sono sempre ritenuta un’aspirante conoscitrice della lingua italiana, ma oggi,
riflettendo, non sono riuscita a dare una definizione da “vocabolario” alla
parola “Apatia”, per cui sono andata a controllare:
Apatia - 1) “Stato
d’indifferenza abituale o prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti
della realtà esterna e dell’agire pratico; in medicina, notevole riduzione o
mancanza di reazioni affettive; si verifica con particolare frequenza in alcune
forme di schizofrenia, in alcuni stati depressivi e nella frenastenia di
notevole grado. 2) Nella filosofia antica, stato di perfezione
contemplativa dello spirito, che attraverso l’esercizio della virtù consegue la
libertà interiore intesa come indipendenza, indifferenza e imperturbabilità
rispetto alle passioni e alle emozioni umane, ai piaceri sensibili, agli eventi
esterni in genere, secondo un ideale di saggezza sostanzialmente unitario
propugnato in età ellenistica da cinici, stoici ed epicurei e variamente
recepito e discusso dai Padri della Chiesa e dagli apologisti cristiani.”
Ora,
devo ammettere che da quando, ormai diversi anni orsono, la filosofia degli
stoici è entrata nelle mie conoscenze ha subito su di me un grande fascino:
vuoi l’adolescenza, momento di turbamenti e forte emozioni, vuoi il lavaggio
del cervello operato dal liceo classico, mi è sembrata un’ottima idea tentare
di operare su me stessa il punto 2) della definizione gentilmente offertami dal
Treccani.
Devo
dire che, in qualche modo, per qualche periodo, ci sono riuscita, solo che, a
causa dei turbamenti sovra citati, probabilmente i padri dello stoicismo non
sarebbero propriamente stati fieri di me: alternavo periodi di perfetta
indifferenza e imperturbabilità, per l’appunto, verso il mondo, a stati di
dolore profondo e lacerante per quanto facevo durante i serafici periodi di cui
prima.
Attorno
a me poteva esplodere la terra e poteva anche crollarmi in testa il cielo, ma
io avrei trovato il modo di sdrammatizzare, di prenderla “con filosofia”, di
restare calma.
Se
da un lato questo atteggiamento mi ha portato grossi vantaggi, sia perché
riuscivo a mantenere il sangue freddo in situazioni più o meno estreme, sia
perché le naturali batoste emotive del periodo tendevano a spezzarmi le gambe,
dall’altro lato poteva capitare che finissi per ferire le persone che mi
stavano attorno, che mi vedevano del tutto indifferente alle mie o alle loro
emozioni (nelle migliori delle ipotesi, ma solitamente finivo per sbeffeggiare,
inconsapevolmente – ormai era diventata un’”abilità” innata – i loro sentimenti
o i loro gesti d’affetto) o che finissi per espormi, addirittura, a rischi o a
pericoli.
La
negatività della cosa, tuttavia, mi lasciava, ancora, indifferente, almeno fin
quando, in quanto – purtroppo – io non sono e non ero una stoica, non
subentrava il mio onnipresente animo umano a dirmi cosa cazzo stavo facendo. A
quel punto mi abbandonavo alla tristezza più totale e ai sensi di colpa più
terribili per aver trattato male me stessa e gli altri.
A
parlarne così, comunque, mi sembra di sminuire la cosa, benché io non sia di
certo qui a scrivere quanto la sottoscritta Angelica Papasergi abbia,
poveretta, sofferto nella sua vita.
In
realtà il dolore che provavo in quei momenti era qualcosa di assolutamente
atroce (e anche questo termine, non vorrei sembrare melodrammatica, ma non
credo calzi alla perfezione): forse, ognuno a modo proprio, anche se non lo
auguro a nessuno, ha già raggiunto la “soglia del male sopportabile” e intuisce
cosa sto cercando con i miei pochi mezzi di dire. Prendendo un altro filosofo,
Epicuro, che ci diceva “Il
dolore non va temuto, infatti se è intenso è breve, se è lungo non è intenso”,
e chiedendogli scusa perché non ho saputo fare felice neanche lui, vorrei
specificare che quest’affermazione non potrebbe essere più falsa: cosa
intendiamo con “intenso”? Cosa con “breve”, cosa con “lungo”?
Il
dolore che ho provato in quei momenti, in quei giorni, in quei mesi, in quegli
anni non ha niente di paragonabile ad un dolore fisico, benché ne abbia testati
di piuttosto forti; è un male che pervade ogni singola fibra del corpo, che fa
desiderare di perdere i sensi, che obnubila totalmente la mente tanto da far sembrare
come se non avessi più le braccia o le gambe, perché quel sangue amarissimo che
il cuore sta pompando non giunge ad arrivare alle estremità prima di evaporare
dolorosamente dalle vene, lasciando il vuoto più assoluto.
Da
qui, chiaramente, il cane iniziava a mordersi la coda, avevo necessariamente
bisogno di tornare “stoica” e vivere la mia vita pacificamente con strafottenza
fino alla prossima ondata di atrocità.
Ma
non si può vivere di alti e bassi perennemente, così, ad un certo punto, ho
deciso di soffrire e basta, visto che non ero in grado di essere apatica.
Mi
sono persa in un mondo lontanissimo, in cui tutto ciò che desideravo era
irraggiungibile perché mi sfuggiva, e forse mi derideva anche, ma sarebbe stato
sopportabile se non fossi stata ammorbata da quell’entità malefica che è la
Speranza, di vedere la luce e poterla afferrare, o semplicemente sorridergli
senza che mi sentissi raggelare nel tentativo di farlo, senza comprenderne il
motivo.
Ho
continuato a ferirmi e a ferire, a tremare di emozione di fronte a gesti belli
(la bellezza del cuore, intendo), di fronte alla novità, di fronte a ciò che
capivo che trasmettesse una qualche forma di amore; ma ogni volta non sapevo
gustare tutto ciò, assaporarlo e farlo mio, e così, infine, svaniva in una nube
nerastra e carica di tempesta, di cattivi presagi e di tristezza.
Ho
avuto paura del mondo, da morire, perché sapevo che era dannatamente bello (la
stessa bellezza di prima) e pazzescamente fragile, ma, cazzo!, nessuno intorno
a me sembrava accorgersene. Per cui ho dovuto, per forza, capite?, nascondermi
da quel mondo che tanto amavo perché sarebbe stato inutile continuare a tentare
di far comprendere che c’era di più, di più sotto la fottutissima superficie
brillante del mare al tramonto.
“Là
sotto ci sono i pesci! E quanti tipi di pesci! Ci sono anche i fondali marini,
moltissimi tipi di vegetali, e sicuramente anche qualche reperto archeologico!”
“Sì,
ok, ma non lo vedi quanto è bello il sole? E’ tutto rosso e fa brillare l’acqua
e tinge il cielo.”
Io
ogni volta mi giravo, nuovamente, e fissavo il tramonto: la luce radente di
quell’ora mi fa sempre pizzicare gli occhi e, talvolta, mi fa piangere.
Ecco,
il tramonto, voglio dire, ad un apatico non dovrebbe importargliene niente
delle emozioni che può suscitare nell’animo (ma a uno stoico forse sì, devo
indagare); non dovrebbe importargliene niente neanche del fatto che tutto, tutto
lo stramaledetto mondo guarda il tramonto, in montagna, al mare, in città, e, o
lo ignora, oppure si ferma a fissarlo, magari in compagnia, sapete com’è, e a
perdere parole sulla sua bellezza (no, non la bellezza di prima).
E’
bello il tramonto, bravo, l’hanno già detto in miliardi, di sicuro aveva
bisogno di sentirselo dire anche da te.
La
verità è che non esistono parole per descrivere le cose belle (di nuovo la
bellezza del cuore) come non ne esistono per parlare dei moti dell’animo: forse
perché anch’essi sono tra le cose belle del mondo, anche se non tutti
meriterebbero questo aggettivo, a mio parere.
E’
importante quello che sto dicendo? No, e me ne rendo conto, ma è questo quello
che chiamano “filosofia”: riflettere su cose che nella vita, odierna, di tutti
i giorni non servono a niente.
Attenzione,
però, io non sono una filosofa, né potrò mai esserlo (come abbiamo visto i miei
tentativi sono falliti piuttosto platealmente), per cui voi sentitevi in
diritto di continuare a guardare la superficie del mare brillare.
Io,
di tutta risposta, mi sentirò in diritto di continuare a temere il mondo.
Perché le cose speciali sono sempre fragili ed incomprensibili, e io ho troppa
paura di affrontare ciò.
Questo, fra mille altri pensieri, affonda inutilmente al di sotto di quella superficie brillante.
Questo, fra mille altri pensieri, affonda inutilmente al di sotto di quella superficie brillante.
Ad
un certo punto, dopo altri vari avvenimenti piacevoli e spiacevoli e con il
naturale corso (o decorso?) delle cose, è giunta la definizione 1).
Non
so, e non so se riuscirò mai a scoprirlo, quanto l’una abbia influenzato l’altra
cosa, ma adesso ci sono dei lunghi momenti, chiamiamoli così per non spaventarmi
troppo, in cui io non desidero.
E
nella vita, io lo so, bisogna desiderare: mangiare, bere, dormire, uscire,
vestirsi, lavarsi, sorridere, parlare, gridare, giocare, avere, essere
qualcosa, qualsiasi cosa, avere un sogno.
Così,
però, è più comodo: fissare il soffitto o un punto qualsiasi della parete è
comodissimo. Non mi va di fare altro, perché dovrei? Perché, potrei?
Non
sempre però fila tutto così liscio, a volte le giornate mi spingono, e forse un
po’ mi ci spingo da sola per il timore (reale) di morire da sola nel mio letto,
a fare qualche cosa e, quasi sempre, ciò comporta avere a che fare con “persone”.
Sto
pensando perché ho messo le virgolette intorno a “persone” e non ho saputo darmi
una risposta: non credo sia l’ora tarda, credo semplicemente, ammettendolo con
onestà, che ora come ora mi sento così estraniata dai rapporti sociali da
vedere quella parola come del tutto aliena.
In
quei momenti, in questi momenti, vorrei fortemente scomparire. Ma sono troppo
attaccata al mondo e alla mia anima per desiderarlo veramente, per cui quello
che desidero in realtà è nascondermi agli altri.
Ora
mi spiego meglio: d’inverno è tutto più semplice. Ho freddo, posso ricoprirmi
di vestiti, mettermi sciarpe fin sopra il naso e un cappuccio fin sotto le
sopracciglia e riesco a sentirmi un pochino meglio. Talvolta, addirittura,
quando cammino per strada riesco a guardare fino al mento delle persone che mi
passano accanto. Il viso no, adesso non esageriamo. D’estate, invece, è tutto
un casino: ho caldo e non riesco a tenermi addosso neanche una sciarpa leggera,
all’interno della quale calcarmi fino al naso, alla necessità. Cioè, ma io
quindi dovrei andare in giro a mostrare la mia faccia, la mia pelle, le mie
braccia, le mie gambe? Dovrei riuscire a guardare in volto le persone? Dovrei
riuscire a parlare con loro, fissandole negli occhi, senza spostare lo sguardo
a destra e a sinistra, senza guardarmi le punte dei piedi, senza fare finta di
controllare l’ora o di leggere un messaggio sul cellulare? Veramente???
Ah,
wow, interessante.
Per
cui, alla fine, finisco per sentirmi a disagio, in ansia e stare in silenzio,
parlare quando interpellata o quando è veramente necessario dire qualcosa (a
volte mi lascio un po’ andare e parlo a sproposito, cioè dico quello che mi
passa per la testa: subito dopo, quasi sempre, me ne pento e provo una
grandissima vergogna, benché comprenda che non abbia detto nulla di
particolarmente cattivo o fuori luogo). E’ difficile avere voglia di avere
relazioni sociali così.
Altre
volte, invece, l’apatia scema e lascia spazio ad una sensazione dolorosa: non è
un male acuto, lancinante, è più che altro un fastidio.
Un
pensiero martellante.Un’inquietudine incessabile.
Una certezza di fallimento, di incomprensione, di terrore.
Una di queste, o tutte insieme, non fa differenza: m’impedisce, il più delle volte, di muovermi dal letto o dal divano e di fare attività pratiche o utili.
Trovo, a tal proposito, che la lingua italiana sia molto strana: posso spiegare, quindi, in tanti modi le sensazioni che trasmette l’Apatia, ma non riesco a spiegare in alcun modo la Bellezza. Perché non esiste un termine specifico con cui io vorrei poter sostituire quel “bellezza”.
Magari
potrei pensare a questo nei momenti poco prolifici di assoluta vegetazione sul
letto: creare un nuovo vocabolo da inserire nel Treccani.
Questo è solo un minuscolo frammento della mia anima.
7 commenti:
Ti ringrazio per averi reso partecipe di una parte di te, del tuo frammento di vita.
PS Quando parli di te intimamente sei magnetica, è difficile staccare lo sguardo dalle parole che hai formulato e messo in ordine l'una dietro l'altra.
Chi? Io? Cosa?
Questa Angelica dev'essere anche un hacker oltre che una stalker, s'introduce nel mio account per arrivare a te!
Lo sapevo che era tornata. Lo sapevo!
Il discorso sul mare mi ha colpito. Ma lo intendo nel modo più profondo, è come se fossi stato colpito da un treno in pieno petto.
Mi hai fatto venire voglia di tuffarmi, nel mondo, nella Bellezza, e di afferrare tutto quello che posso prima che sia troppo tardi. Dovresti provarci, è bello.
E' quello per cui mi impegno ogni giorno, a mio modo (=
E' tanto.
Solo questo si può dire.
E' tanto.
Non è solo apatia, non è solo tristezza, non è solo paura, non è solo questo e ognuno può aggiungerci qualcosa.
Pollice su
E ansia, aggiungerei!
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