Citazioni


domenica 11 agosto 2013

ἀ-πάϑος


A Ivan.

“Continuiamo dopo, mi interessa”.


  

A volte è davvero complesso provare a spiegare ciò che si pensa e in effetti non ho l’ardire di tentarci.


Mi sono sempre ritenuta un’aspirante conoscitrice della lingua italiana, ma oggi, riflettendo, non sono riuscita a dare una definizione da “vocabolario” alla parola “Apatia”, per cui sono andata a controllare:
Apatia -  1) “Stato d’indifferenza abituale o prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti della realtà esterna e dell’agire pratico; in medicina, notevole riduzione o mancanza di reazioni affettive; si verifica con particolare frequenza in alcune forme di schizofrenia, in alcuni stati depressivi e nella frenastenia di notevole grado. 2) Nella filosofia antica, stato di perfezione contemplativa dello spirito, che attraverso l’esercizio della virtù consegue la libertà interiore intesa come indipendenza, indifferenza e imperturbabilità rispetto alle passioni e alle emozioni umane, ai piaceri sensibili, agli eventi esterni in genere, secondo un ideale di saggezza sostanzialmente unitario propugnato in età ellenistica da cinici, stoici ed epicurei e variamente recepito e discusso dai Padri della Chiesa e dagli apologisti cristiani.


Ora, devo ammettere che da quando, ormai diversi anni orsono, la filosofia degli stoici è entrata nelle mie conoscenze ha subito su di me un grande fascino: vuoi l’adolescenza, momento di turbamenti e forte emozioni, vuoi il lavaggio del cervello operato dal liceo classico, mi è sembrata un’ottima idea tentare di operare su me stessa il punto 2) della definizione gentilmente offertami dal Treccani.
Devo dire che, in qualche modo, per qualche periodo, ci sono riuscita, solo che, a causa dei turbamenti sovra citati, probabilmente i padri dello stoicismo non sarebbero propriamente stati fieri di me: alternavo periodi di perfetta indifferenza e imperturbabilità, per l’appunto, verso il mondo, a stati di dolore profondo e lacerante per quanto facevo durante i serafici periodi di cui prima.
Attorno a me poteva esplodere la terra e poteva anche crollarmi in testa il cielo, ma io avrei trovato il modo di sdrammatizzare, di prenderla “con filosofia”, di restare calma.

Se da un lato questo atteggiamento mi ha portato grossi vantaggi, sia perché riuscivo a mantenere il sangue freddo in situazioni più o meno estreme, sia perché le naturali batoste emotive del periodo tendevano a spezzarmi le gambe, dall’altro lato poteva capitare che finissi per ferire le persone che mi stavano attorno, che mi vedevano del tutto indifferente alle mie o alle loro emozioni (nelle migliori delle ipotesi, ma solitamente finivo per sbeffeggiare, inconsapevolmente – ormai era diventata un’”abilità” innata – i loro sentimenti o i loro gesti d’affetto) o che finissi per espormi, addirittura, a rischi o a pericoli.
La negatività della cosa, tuttavia, mi lasciava, ancora, indifferente, almeno fin quando, in quanto – purtroppo – io non sono e non ero una stoica, non subentrava il mio onnipresente animo umano a dirmi cosa cazzo stavo facendo. A quel punto mi abbandonavo alla tristezza più totale e ai sensi di colpa più terribili per aver trattato male me stessa e gli altri.
A parlarne così, comunque, mi sembra di sminuire la cosa, benché io non sia di certo qui a scrivere quanto la sottoscritta Angelica Papasergi abbia, poveretta, sofferto nella sua vita.
In realtà il dolore che provavo in quei momenti era qualcosa di assolutamente atroce (e anche questo termine, non vorrei sembrare melodrammatica, ma non credo calzi alla perfezione): forse, ognuno a modo proprio, anche se non lo auguro a nessuno, ha già raggiunto la “soglia del male sopportabile” e intuisce cosa sto cercando con i miei pochi mezzi di dire. Prendendo un altro filosofo, Epicuro, che ci diceva “Il dolore non va temuto, infatti se è intenso è breve, se è lungo non è intenso”, e chiedendogli scusa perché non ho saputo fare felice neanche lui, vorrei specificare che quest’affermazione non potrebbe essere più falsa: cosa intendiamo con “intenso”? Cosa con “breve”, cosa con “lungo”?


Il dolore che ho provato in quei momenti, in quei giorni, in quei mesi, in quegli anni non ha niente di paragonabile ad un dolore fisico, benché ne abbia testati di piuttosto forti; è un male che pervade ogni singola fibra del corpo, che fa desiderare di perdere i sensi, che obnubila totalmente la mente tanto da far sembrare come se non avessi più le braccia o le gambe, perché quel sangue amarissimo che il cuore sta pompando non giunge ad arrivare alle estremità prima di evaporare dolorosamente dalle vene, lasciando il vuoto più assoluto.


Da qui, chiaramente, il cane iniziava a mordersi la coda, avevo necessariamente bisogno di tornare “stoica” e vivere la mia vita pacificamente con strafottenza fino alla prossima ondata di atrocità.
Ma non si può vivere di alti e bassi perennemente, così, ad un certo punto, ho deciso di soffrire e basta, visto che non ero in grado di essere apatica.


Mi sono persa in un mondo lontanissimo, in cui tutto ciò che desideravo era irraggiungibile perché mi sfuggiva, e forse mi derideva anche, ma sarebbe stato sopportabile se non fossi stata ammorbata da quell’entità malefica che è la Speranza, di vedere la luce e poterla afferrare, o semplicemente sorridergli senza che mi sentissi raggelare nel tentativo di farlo, senza comprenderne il motivo.


Ho continuato a ferirmi e a ferire, a tremare di emozione di fronte a gesti belli (la bellezza del cuore, intendo), di fronte alla novità, di fronte a ciò che capivo che trasmettesse una qualche forma di amore; ma ogni volta non sapevo gustare tutto ciò, assaporarlo e farlo mio, e così, infine, svaniva in una nube nerastra e carica di tempesta, di cattivi presagi e di tristezza.


Ho avuto paura del mondo, da morire, perché sapevo che era dannatamente bello (la stessa bellezza di prima) e pazzescamente fragile, ma, cazzo!, nessuno intorno a me sembrava accorgersene. Per cui ho dovuto, per forza, capite?, nascondermi da quel mondo che tanto amavo perché sarebbe stato inutile continuare a tentare di far comprendere che c’era di più, di più sotto la fottutissima superficie brillante del mare al tramonto.
“Là sotto ci sono i pesci! E quanti tipi di pesci! Ci sono anche i fondali marini, moltissimi tipi di vegetali, e sicuramente anche qualche reperto archeologico!”
“Sì, ok, ma non lo vedi quanto è bello il sole? E’ tutto rosso e fa brillare l’acqua e tinge il cielo.”
Io ogni volta mi giravo, nuovamente, e fissavo il tramonto: la luce radente di quell’ora mi fa sempre pizzicare gli occhi e, talvolta, mi fa piangere.


Ecco, il tramonto, voglio dire, ad un apatico non dovrebbe importargliene niente delle emozioni che può suscitare nell’animo (ma a uno stoico forse sì, devo indagare); non dovrebbe importargliene niente neanche del fatto che tutto, tutto lo stramaledetto mondo guarda il tramonto, in montagna, al mare, in città, e, o lo ignora, oppure si ferma a fissarlo, magari in compagnia, sapete com’è, e a perdere parole sulla sua bellezza (no, non la bellezza di prima).
E’ bello il tramonto, bravo, l’hanno già detto in miliardi, di sicuro aveva bisogno di sentirselo dire anche da te.
La verità è che non esistono parole per descrivere le cose belle (di nuovo la bellezza del cuore) come non ne esistono per parlare dei moti dell’animo: forse perché anch’essi sono tra le cose belle del mondo, anche se non tutti meriterebbero questo aggettivo, a mio parere.
E’ importante quello che sto dicendo? No, e me ne rendo conto, ma è questo quello che chiamano “filosofia”: riflettere su cose che nella vita, odierna, di tutti i giorni non servono a niente.
Attenzione, però, io non sono una filosofa, né potrò mai esserlo (come abbiamo visto i miei tentativi sono falliti piuttosto platealmente), per cui voi sentitevi in diritto di continuare a guardare la superficie del mare brillare.
Io, di tutta risposta, mi sentirò in diritto di continuare a temere il mondo. Perché le cose speciali sono sempre fragili ed incomprensibili, e io ho troppa paura di affrontare ciò.

Questo, fra mille altri pensieri, affonda inutilmente al di sotto di quella superficie brillante.


Ad un certo punto, dopo altri vari avvenimenti piacevoli e spiacevoli e con il naturale corso (o decorso?) delle cose, è giunta la definizione 1).
Non so, e non so se riuscirò mai a scoprirlo, quanto l’una abbia influenzato l’altra cosa, ma adesso ci sono dei lunghi momenti, chiamiamoli così per non spaventarmi troppo, in cui io non desidero.
E nella vita, io lo so, bisogna desiderare: mangiare, bere, dormire, uscire, vestirsi, lavarsi, sorridere, parlare, gridare, giocare, avere, essere qualcosa, qualsiasi cosa, avere un sogno.
Così, però, è più comodo: fissare il soffitto o un punto qualsiasi della parete è comodissimo. Non mi va di fare altro, perché dovrei? Perché, potrei?

Non sempre però fila tutto così liscio, a volte le giornate mi spingono, e forse un po’ mi ci spingo da sola per il timore (reale) di morire da sola nel mio letto, a fare qualche cosa e, quasi sempre, ciò comporta avere a che fare con “persone”.
Sto pensando perché ho messo le virgolette intorno a “persone” e non ho saputo darmi una risposta: non credo sia l’ora tarda, credo semplicemente, ammettendolo con onestà, che ora come ora mi sento così estraniata dai rapporti sociali da vedere quella parola come del tutto aliena.
In quei momenti, in questi momenti, vorrei fortemente scomparire. Ma sono troppo attaccata al mondo e alla mia anima per desiderarlo veramente, per cui quello che desidero in realtà è nascondermi agli altri.
Ora mi spiego meglio: d’inverno è tutto più semplice. Ho freddo, posso ricoprirmi di vestiti, mettermi sciarpe fin sopra il naso e un cappuccio fin sotto le sopracciglia e riesco a sentirmi un pochino meglio. Talvolta, addirittura, quando cammino per strada riesco a guardare fino al mento delle persone che mi passano accanto. Il viso no, adesso non esageriamo. D’estate, invece, è tutto un casino: ho caldo e non riesco a tenermi addosso neanche una sciarpa leggera, all’interno della quale calcarmi fino al naso, alla necessità. Cioè, ma io quindi dovrei andare in giro a mostrare la mia faccia, la mia pelle, le mie braccia, le mie gambe? Dovrei riuscire a guardare in volto le persone? Dovrei riuscire a parlare con loro, fissandole negli occhi, senza spostare lo sguardo a destra e a sinistra, senza guardarmi le punte dei piedi, senza fare finta di controllare l’ora o di leggere un messaggio sul cellulare? Veramente???
Ah, wow, interessante.

Per cui, alla fine, finisco per sentirmi a disagio, in ansia e stare in silenzio, parlare quando interpellata o quando è veramente necessario dire qualcosa (a volte mi lascio un po’ andare e parlo a sproposito, cioè dico quello che mi passa per la testa: subito dopo, quasi sempre, me ne pento e provo una grandissima vergogna, benché comprenda che non abbia detto nulla di particolarmente cattivo o fuori luogo). E’ difficile avere voglia di avere relazioni sociali così.


Altre volte, invece, l’apatia scema e lascia spazio ad una sensazione dolorosa: non è un male acuto, lancinante, è più che altro un fastidio.
Un pensiero martellante.
Un’inquietudine incessabile.
Una certezza di fallimento, di incomprensione, di terrore.
Una di queste, o tutte insieme, non fa differenza: m’impedisce, il più delle volte, di muovermi dal letto o dal divano e di fare attività pratiche o utili.


Trovo, a tal proposito, che la lingua italiana sia molto strana: posso spiegare, quindi, in tanti modi le sensazioni che trasmette l’Apatia, ma non riesco a spiegare in alcun modo la Bellezza. Perché non esiste un termine specifico con cui io vorrei poter sostituire quel “bellezza”.

Magari potrei pensare a questo nei momenti poco prolifici di assoluta vegetazione sul letto: creare un nuovo vocabolo da inserire nel Treccani.

Ah, un'ultima cosa importante: questo non è un racconto, però forse, in effetti, avrei dovuto dirvelo all’inizio.
Questo è solo un minuscolo frammento della mia anima.


7 commenti:

vorgh ha detto...

Ti ringrazio per averi reso partecipe di una parte di te, del tuo frammento di vita.

PS Quando parli di te intimamente sei magnetica, è difficile staccare lo sguardo dalle parole che hai formulato e messo in ordine l'una dietro l'altra.

Arhal ha detto...

Chi? Io? Cosa?
Questa Angelica dev'essere anche un hacker oltre che una stalker, s'introduce nel mio account per arrivare a te!

vorgh ha detto...

Lo sapevo che era tornata. Lo sapevo!

Bob ha detto...

Il discorso sul mare mi ha colpito. Ma lo intendo nel modo più profondo, è come se fossi stato colpito da un treno in pieno petto.
Mi hai fatto venire voglia di tuffarmi, nel mondo, nella Bellezza, e di afferrare tutto quello che posso prima che sia troppo tardi. Dovresti provarci, è bello.

Arhal ha detto...

E' quello per cui mi impegno ogni giorno, a mio modo (=

Il Losco ha detto...

E' tanto.
Solo questo si può dire.
E' tanto.
Non è solo apatia, non è solo tristezza, non è solo paura, non è solo questo e ognuno può aggiungerci qualcosa.
Pollice su

Arhal ha detto...

E ansia, aggiungerei!