Gli anniversari non mi sono mai piaciuti. Fondamentalmente
sono una sorta di Natale o Capodanno personalizzati, nel senso che riguardano
te e una cerchia limitata di persone. E' un modo per celebrare in un qualunque
modo la durata e la resistenza di qualcosa, di una situazione o la potenza di
un evento che riguarda te e quel piccolo clan che può comprendere dai due ai
sette miliardi di persone. Anche il compleanno è un anniversario se ci pensate,
ma quello riguarda solo te, una piccola autocelebrazione alla tua vita. Gli
anniversari non mi piacciono, non per una moda di controtendenza dalla massa,
ma perché arriverà il momento in cui quegli anniversari non si celebreranno
più, perché quella situazione o evento non avranno più valore.
So che apparentemente non c'entra nulla, ma di contro a ciò
adoro i treni e le stazioni ferroviarie. In particolare la stazione di piazza
Garibaldi, la stazione centrale della mia città.
La mia è la storia di un uomo, o meglio di un giovane, che
potrebbe essere un mio amico, ma se meglio preferite posso essere anche io,
colui che sta qui scrivendo per voi. Se preferite potete essere voi stessi,
oppure un eroe.
Matteo.
Perché mi piace così.
Un giovane come tanti altri, studente universitario, di
qualcosa che probabilmente non lo porterà da nessuna parte, ma che lo fa
crescere, lo fa inserire, in qualche modo, in quella società malata di cui
tutti si lamentano. E' inutile prenderci in giro, la scuola non serve a nulla,
è l'università che ti forma come persona. Se pensi di formarti con la scuola
soltanto, apparterrai per sempre ad una casta di persone inferiori mentalmente
... e no, non penso di essere razzista.
Matteo non è
razzista. Gli piace solo provocare.
La location è piazza
Garibaldi. Perenni cantieri che cercheranno di renderla un luogo
all'avanguardia, un luogo di stoffa europea per una città che non sarà mai
europea, perché non avrebbe senso. E' nodo di scambio di diverse linee della
metropolitana, di linee ferroviarie regionali e nazionali, stazionamento di bus
cittadini, regionali e nazionali anch'essi. Taxi - anche tassisti abusivi.
Gente di tutte le razze, colori della pelle, idiomi sconosciuti, ricchi e
poveri, drogati e truffatori, negozianti e mafiosi. Puttane e travestiti.
Ah, il gioco delle
tre carte, per piacere non ci cadete ancora.
Odori: smog,
pizza, sfogliatella, pioggia - quando piove - e merda, quando i cani cacano,
kebab - quanti cazzo di islamici, turchi o quello che sono.
I paccotti: cioè,
ma davvero credete che un losco figuro - come direbbe un tipo assurdo che si fa
chiamare Losco e che parla come se uscisse dal milleottocento o settecento - vi
venda un I-Phone o un I-Pad a cinque volte di meno del prezzo di listino? E'
ovvio che vi ritrovate un mattone nella scatola. Una volta conobbi un tizio, indigeno,
nato qui eh! Cioè, 'st'idiota davvero pensava di fare un affare e comprare un
notebook a poco e niente: si ritrovò un mattone nella scatola. E lo vieni a
raccontare ad una cena con tanti indigeni anche loro, e magari ti aspetti anche
che non ti prendano per il culo.
Non molto tempo fa vidi un tizio mulatto o forse indiano,
non ricordo bene, sempre in quella piazza, che notò una bottiglina d'acqua a
terra, mentre passeggiava diretto chissà dove, si abbassò e lestamente la prese
con sé, continuando per la sua strada. Siamo arrivati a questo? Cioè vi rendete
conto? Una bottiglina d'acqua, chiunque può avere dell'acqua in questo mondo.
Eppure se ne trovi una a terra non la lasci lì. Siamo in guerra.
Torniamo a Matteo. Conosce molto bene la stazione ferroviaria
e tutto quest'ambiente pieno di colori e odori provenienti da tutto il mondo.
Si potrebbe paragonare questo luogo al suo anniversario, perché in qualche modo
ha scandito gli anni della sua vita, le fasi della sua vita. I momenti cardine.
Prima fase.
Infantile.
Matteo pensa a quando
era un ragazzino ed era eccitato quando il padre gli proponeva di accompagnarlo
al mercato che ogni sabato, ma forse anche ogni giorno, apriva e apre tuttora
lì. Quanti oggettini usati, rubati, mezzi-rotti. I primi videogiochi taroccati
e i DVD. Gli occhiali che papà decideva di comprare lì, perché in fondo sono
tutti uguali. C'è una tipa con cui usciva Matteo che gli disse che il suo ex
lavorava da un ottico e che la differenza tra una lente ed un'altra è minima e
che in tale modo possono spennare i poveri clienti miopi che non capiscono un
cazzo di ottica.
Matteo ricorda di
quando quello che vendeva i DVD taroccati dei film usciti da poco al cinema.
Quell'uomo era pazzo, urlava come uno appena uscito da una clinica psichiatrica,
in dialetto stretto con voce da tenore e grasso com'era sembrava un Pavarotti,
che più raggiungeva note alte, più si faceva paonazzo. Rischiava l'infarto ogni
sabato. Un giorno morì stecchito proprio lì davanti a Matteo.Era rigido come un
tronco d'albero. E rosso come un inglese che ha preso il sole su una spiaggia
di Sorrento. Forse anche più rosso. Aveva in mano una custodia di una copia
taroccata de "Il Gladiatore" con Russel Crowe. Tanto che aveva
sofferto, aveva rotto la plastica all'estremità bassa della custodia, quindi
c'era la parte corrispondente della locandina, lì dove finivano le gambe di
MassimoRussel il gladiatore in gonnellina, tutta sfrangiata.
I borseggiatori erano
più frequenti di quanto lo sia la metropolitana adesso, nel duemilaquattordici.
Matteo vedeva le loro mani che si infilavano nelle tasche di qualcuno, che
cercava di fare un affare comprando un vecchio telefono a forma di Micky Mouse,
ogni cinque minuti.
Il capitone che fugge
dal banco del pesce infilandosi attraverso le grate del tombino.
Una graffa a cinquanta
centesimi, bianca e candida come la neve, leggera come un piatto da novelle
cousine, calda come il sangue dei latini. Il sapore lo sente ancora in bocca,
il ricordo di quelle avventure con il padre in quei frequenti sabati riaffiora
ancora adesso quando ne mangia una molto simile alle due e mezza di notte dopo
litri di birra.
Flash di un
ragazzetto che ha conosciuto il mondo in quella piazza.
Tic-tac, il tempo passa e Matteo ricorda. Sorbisce l'ultimo
sorso di caffè amaro che gli fa fare una smorfia antipatica, esce
dall'affollato cafè. Si accende una sigaretta e guarda il tabellone degli
orari. Intercity 590. Frecciarossa. Regionale 24546. I treni gli sono sempre
piaciuti, a partire da quelli della metropolitana che prende per tornare a
casa. Lo rilassano, lo fanno sentire al sicuro e allo stesso tempo riescono a
trasmettergli senso di libertà. Matteo ha spesso problemi del sonno, ma quando
è in un treno si riesce a rilassare e come cullato da una madre si addormenta,
riposa gli occhi. Il ritmico avanzare del treno sulle rotaie diventa una
costante ipnotica, una certezza che gli permette di abbandonare le difese per
quel tempo delimitato dai minuti o dalle ore di viaggio.
Seconda fase.
Adolescenziale.
I primi tempi che si guida e si prende la macchina con gli amici. Tempi maledetti per l'incoscienza che ci domina. Tempi
fantastici per la nostra adrenalina. Matteo ricorda ancora i brividi che
provava allora, adesso sembrano fantascienza, adesso si invecchia prima, perché
l'opinione pubblica vuole persone responsabili e addomesticate. Lucide. Allegre
solo all'apparenza, non davvero, perché può essere pericoloso. L'importante è
incarnare l'immagine della felicità: tu, piccolo modello in mano ad una grossa
azienda che compra e vende soldi, manco fossero patate. Matteo e i suoi amici
premevano l'acceleratore, superavano a destra, in curva, gareggiavano al
semaforo con sconosciuti, pur sapendo di non potercela mai fare con i loro
catorci. Era giusto l'emozione che può provocare soltanto la velocità. La
benzina costava molto meno, macinavano chilometri di asfalto da periferia a
periferia, tanto che una volta a Matteo venne la nausea mentre era lui stesso a
guidare. Una cosa che non accade mai. Uno dei tanti e ricorrenti giri li
portava sempre nella piazza che già aveva segnato la sua infanzia con il
mercato. Piazza Garibaldi di notte è un ritrovo di puttane e travestiti, se
volete i ragazzini rumeni che fanno le marchette stanno al centro direzionale,
poco più avanti. In piazza, Matteo e i suoi amici, passando con la macchina,
una sera si accorsero che vi era un folto gruppo di schiave dell'est, con le
tette e il culo praticamente scoperti. Quel gruppo c'è sempre anche adesso.
Magari sono altre donne, ma sono tutte uguali, l'occhio di uno arrapato non
distingue una puttana da un'altra a meno che non sia uno che le voglia
uccidere. Quelle dell'est, si sa, sono le più care: considerate soltanto che se
andate ad Amsterdam risparmiate. Nei vicoletti a ridosso della piazza ci
trovate le schiave africane e le asiatiche, che sono più economiche perché
considerate più sporche e botteghe di malattie. Cosa probabile, visto che dai
papponi sono usate come macchine per arricchirsi, senza alcuna manutenzione.
Sfruttamento. Sono lì a succhiare cazzi senza neanche sapere cos'è l'AIDS.
Matteo ricorda ancora quanto quella carne ben messa in esposizione, donne mai
viste, alieni che pensava esistessero soltanto nei film porno, lo
incuriosivano e c'era un parte di lui che voleva solo fermarsi e scopare nel
modo più animalesco possibile, ma poi l'altra parte di lui lo frenava e faceva leva
sull'infinito amor proprio pur di evitare una cosa simile. Non pagherò mai per
fare sesso. Nessuna questione morale. La morale la butti nel cesso quando sei
un animale. E l'istinto sessuale non ha morale. Matteo, che grand'uomo! Non
pagherà mai per fare sesso, e ancora adesso non gli è mai successo. Si ritiene
un grande dongiovanni, non pagherà mai per il sesso. Al diavolo se sono schiave
sfruttate e sifilitiche. Non è quello che importa. Lui non paga. Piuttosto
vorrebbe essere pagato per fare sesso. Matteo, quella sera fissò il suo sguardo su
una sagoma slanciata e un po' più coperta sul petto rispetto alle altre. Una
donna evidentemente dell'est, con un passo elegante e uno sguardo intelligente.
Lei anche lo fissò e non gli fece alcun gesto. Lo guardava soltanto, fisso,
negli occhi. Un'espressione unica, cristallina. Matteo ricambiava lo sguardo.
Il semaforo si fece verde, la macchina ripartì e Matteo non la rivide mai più,
ma ancora oggi la sogna la notte. Sogna di affogare nella profondità di quegli
occhi.
Matteo è ancora e sempre qui a piazza Garibaldi,
duemilaquattordici. Adesso è un posto quasi accogliente la stazione, anzi non
si può dire che non lo sia. Bisogna trasformare una stazione in un centro commerciale
per renderlo un luogo civile. Mettere le panchine con i braccioli ad ogni posto
perché altrimenti i barboni si stendono per dormirci. Pensate che la stazione
Garibaldi, prima della ristrutturazione non aveva neanche una panchina per
evitare che diventassero dei letti di clochard. Assurdo, eh? Approved by EU.
Matteo riflette che negli ultimi periodi della sua vita si ritrova sempre qui
per una donna. Nel senso che ha sempre avuto delle donne che venivano dalla
provincia o da luoghi un po' più lontani. Ragazze che dovevano prendere un
treno o un bus per tornare dalla loro famiglia. Matteo aveva piacere a vivere
il momento del saluto, lo trova qualcosa di molto romantico. Alle donne
piacciono queste cose, ma anche a lui.
E’ per questo che Matteo divenne l’accompagnatore.
E’ per questo che Matteo divenne l’accompagnatore.
Terza fase.
Giovinezza.
Amore. Intercity.
Sesso. Regionale.
Passione. Frecciarossa.
Sesso. Regionale.
Passione. Frecciarossa.
Quando Matteo si iscrisse all'università si innamorò di una ragazza che chiameremo Anna, perché loro erano come Anna Karenina e il conte Vronskij. Se non sapete che cosa vi stia dicendo digitatelo su google.com. Adesso si fa così, no?
Matteo Vronskij e Anna, ebbero una travolgente storia d'amore, che si consumò poi nell'atarassia e nella depressione del nostro giovane eroe - tipica espressione da Henry Fielding. Anna era la donna della sua vita. Erano come due rette parallele che si erano
Matteo cadde nel baratro dell'atarassica depressione. Iniziò a sfuggirgli il senso della vita, anche di quella stazione in perenne rinnovamento, il senso di un treno che andava via e poi ritornava. Gli sfuggiva completamente. Anche il senso di Anna, dopo tanto tempo, iniziò a sfuggirgli. Anna lo capì e soffrì, anche se il dialogo non esisteva più fra di loro. Vi erano solo treni ad un determinato orario da prendere e altri che ad un diverso orario che arrivavano, sempre allo stesso binario. E l'intervallo di tempo era sempre lo stesso. Sentimenti automatizzati. A Matteo non piaceva il jazz allora, non capiva quell'indefinitezza compositiva che portava a virtuose improvvisazioni. Un giorno come un altro dei ripetuti e monotoni saluti alle porte del treno, Anna fece scendere una lacrima leggera e in silenzio. Matteo fece finta di non vederla: avrebbe dovuto pensare al suo baratro, al senso della sua vita che gli continuava a sfuggire. Le porte si chiusero e il treno partì.
Quel treno non arrivò mai a destinazione.
Anna non ritornò mai più da Matteo.
Qualche ora dopo Matteo sentì al notiziario che quel treno era deragliato e caduto in mare. I sopravvissuti erano pochi e Anna non era tra questi.
Duemilaquattordici. Matteo dà un’occhiata al cellulare, precisamente all’orologio digitale del cellulare. Adesso è superfluo indossare orologi. A meno che non lo si faccia per stile. Che poi è diventato un movimento abituale e comune prendere il cellulare e controllare l’orario, o meglio il cellulare se lo si ritrova sempre in mano. Siamo nell’era della cellularodipendenza. Rispondi alla chat, controlla facebook, pubblica l’ultimo scatto, controlla l’orario, controlla quando passa il bus o la metro, controlla le news, controlla il meteo. Controlla. Mantieni il controllo di tutto. Controllo.
Comunque, Matteo è sempre lì adesso, che passeggia e si allontana dai binari uscendo appena fuori all’entrata secondaria della stazione ferroviaria. E’ lì che accompagnava se non tutti i giorni, molto spesso, una sua fiamma, che chiameremo Eveline. Tira l’ultimo po’ di tabacco compresso, butta il mozziocone. Lo stazionamento di bus regionali. La fermata dove l’accompagnò la prima volta, e tante altre di seguito. Il paletto.
No aspettate, dovrei passare al corsivo, adesso che sto iniziando con i flashback.
Chiedo scusa.
Ecco, così va meglio.
Un paletto di quelli montati ai bordi dei marciapiedi per impedire alle macchine di invadere lo spazio vitale dei pedoni. Matteo e Eveline.
Eveline perché ci piace così. Perché la sua storia è simile a quella del racconto di Joyce, e non ci credo che non l’avete mai letto neanche a scuola. Cioè, cazzo leggetelo, saranno al massimo sei pagine. Andate su google e trovatelo.
Due pedoni erano Matteo e Eveline quel giorno che lui l’accompagnò alla fermata e non si aspettava niente, anche se sapeva di avere un potere attrattivo nei suoi confronti. Lei l’aveva conquistato con i suoi occhi, poi con le storie del suo passato e con il suo spirito. La voleva fottere a sangue e glielo diceva tranquillamente, pur sapendo che lei non avrebbe dovuto perché ne aveva un altro. Ma lei si eccitava all’idea. Lei era rapita dal suo sguardo che penetrava alla ricerca di un significato recondito della vita, perso ormai con la morte di Anna. Davanti al paletto, dopo ore di storie e aneddoti raccontati, lei lo guardò confusa e terrorizzata, non ti devo baciare, gli disse. No non devo. Due bacetti sulla guancia come facciamo noi latini. Ferma. Primissimo piano. Occhi confusi e chiari, verdi. Lo baciò. Lo ribaciò giorni dopo. Improvvisavano come in una sonata jazz, note all’apparenza buttate lì, ma con un senso. Scopavano ovunque. Il senso della vita che Matteo aveva perso. Si sentiva una piuma. Finalmente sentiva il bruciore della vita. I morsi di un demone che dentro lo facevano diventare un sessuomane. Evelinomane. Ricorda tuttora il bacio, il sapore bagnato di quel bacio davanti al paletto, o di quello sotto la pioggia come in Match Point. Ti salto addosso e ti mangio. Lei sarebbe dovuta essere il suo frecciarossa. Non aveva mai preso un frecciarossa, troppo caro.
Il sapore della sfogliatella più buona della città, che lei gli fece provare, seppure non fosse di lì. Il misterioso ruolo della piazza iniziava ad avere un senso. Eveline era come un frecciarossa, quindi Matteo decise che avrebbe preso un frecciarossa a caso, deciso da un momento ad un altro, per andare con lei in un posto random. Improvvisazione jazz.
Andiamo, prendiamo un treno, non tornare a casa oggi.
Primo piano. Subito dopo DETTAGLIO delle labbra di lei: se le morde repentinamente e nervosamente.
Piccolo sbuffo dalle narici del naso di lei. Insipida risata nasale (espressione rubata a Don De Lillo in Cosmopolis, lo ammetto: mi piace troppo).
Piano americano: Matteo la cinge a se e la trascina verso il binario quindici. Andiamo.
Mezzo busto di lei [voce di sottofondo dell’annunciatore automatico: IL TRENO FRECCIAROSSA PER *** DELLE ORE 20:25 E’ IN PARTENZA DAL BINARIO QUINDICI]: Ferma , sorride prima, mette la cosa sullo scherzo (non fate caso alla consecutio temporum mandata a puttane, immaginate a basta). Parole senza consistenza da parte sua, autoconvinzioni stupide.
Matteo dà consistenza alla proposta. Diede. Quello che è. Voleva prendere davvero quel treno. Lei abbassò lo sguardo e iniziò a piangere quindi scappò al paletto e si fermò lì. Torno a casa, gli fece. Matteo capì che era finita. E’ finita quindi, le chiese con profondità drammatica, stile Casablanca- scena finale. Credo di sì, gli fece lei.
Dissolvenza.
Eveline non morì tragicamente, rimase ancorata al suo mondo stagnante costruito su discariche abusive e apparenze filo-cristiane.
Quel giorno Matteo prese un frecciarossa da solo, ma non saprebbe descrivere quel viaggio. Lo dimenticò totalmente.
Adesso. Ore 18:47, stazione Garibaldi. Matteo non attende nulla in realtà. In realtà ha da poco accompagnato una ragazza a prendere un treno. La ragazza che ritorna al suo paese felice immerso nel verde, dove l’aria è più leggera, dove si respira la primavera anche d’inverno con il freddo. Riflette sulla potenza di questa piazza. La stazione, i treni, le donne, il padre, il mercato, le puttane, i loschi figuri, i cibi esotici. E’ forse questo il significato della vita, un continuo ciclo. Un susseguirsi di anniversari, di situazioni e di eventi, con delle costanti. Anche l’imprevedibilità e il jazz si sono dimostrate costanti della vita di Matteo. Per questo motivo lui è ancora qui, alla stazione centrale. Fa ancora l’accompagnatore. Vive di treni e di animi umani tormentati. La stazione è un posto dove si parte e dove si ritorna, sempre. Una costante. Il treno si muove a differenti velocità, ma la stazione è sempre lì, ferma. Cambia, si evolve, ma il suo animo è sempre quello della stazione. Matteo saluta la piazza e decide di dirigersi alla metropolitana per tornare a casa.
Adesso Matteo si chiede se mai qualcuno lo accompagnerà alla stazione. Il suo ruolo di accompagnatore è una scelta oppure un dovere?
Matteo pensa di dover andare in aeroporto e volare via. Non vedere mai più la stazione Garibaldi? Non fare mai più l’accompagnatore? Una lacrima gli sfugge lentamente nell’imminente barba. Barba salata.
Le scale mobili si bloccano. Rombo di treno nei cunicoli della metropolitana.
Dissolvenza. Due puntini lontani. Ululati di treni, in buie gallerie.
Dissolvenza. Matteo e due lacrime.
Ultima dissolvenza, vera questa.
Fine.
2 commenti:
Bellissimo. Condivido tantissimi pensieri di Matteo, e il suo modo di osservare le cose.
Bravissimo, davvero (=
E mi ero dimenticata di dirti che mi è piaciuto molto il tono anche perché mi ricorda un po' la voce narrante dei film francesi =3
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